lunedì 25 maggio 2009

Lo svedese


La Paz, qual nome meno appropriato. Non che sia una città in guerra, ma sicuramente non si respira pace e tranquillità. La Paz è infatti un grandissimo mercato a cielo aperto dove l'economia informale e sommersa supera di gran lunga il volume d'affari di quella ufficiale. Inutile che Evo passi col cappello a chiedere che la gente paghi le tasse perchè la mamacha (leggasi "mamaccia", che significa "mammina") che vende empanadas all'angolo di strada si è dimenticata di comprare il registratore di cassa.
Arrivati dall'accidiosa Isla del Sol, dove sarebbe stato opportuno riprodurre la scena tanto amata del film "Non ci resta che piangere" dove gli attoniti Benigni e Troisi vengono vessati da un cieco e impietoso esattore toscano di frontiera, siamo piovuti in una riproduzione in tono sudamericano di Kolkata (ex-Calcutta). Senza guida Lonely, finalmente, e senza nessuna nozione sulla città ci siamo messi nelle mani di un obeso poliziotto turistico che vista la miseria in cui versavamo, e mentre ciucciava gaudente un lecca-lecca rosso fuoco, ci ha dirottato verso il meraviglioso "Hostal Cactus" en Calle Jimenez, dove al costo irrisorio di 27 Bolivianos (3 euri) cada uno abbiamo potuto prendere possesso di una splendida camera tripla con vista cesso. Fuori dalla nostra porta, una cenciosa tenda nascondeva una lussuosissima singola. Dopo aver girovagato qualche ora per le bancarelle e per le stradine affolate del centro siamo tornati all'albergo deprimendoci per l'età media da giardino d'infanzia degli ospiti. Con la testa fra le mani anche a causa di un pungente dolor de cabeza siamo andati a letto e mentre dormivano affondando nel materasso consunto e ormai irrimediabilmente concavo, verso le 3 del mattino, siamo stati svegliati dal delirio di un gruppetto di ragazzini che tornavano ubriachi dall'ennesima notte brava. Ed ecco qua che comincia l'avventura paceña del povero trio di trentenni italo-argentino. Uno svedese colored di approssimativamente 20 anni versava in uno stato di delirio alcolico a mio avviso irrecuperabile. Gli "amici", fra cui una stronzissima bionda tatuata e che Dio la castighi, invece di portarselo in camera con loro hanno deciso saggiamente che a ciucciarsi il marrone dovessero essere quei coglioni anziani degli italici che a causa del sonno in progress non si sarebbero mai svegliati per protestare a modino. E infatti così è andata. Mentre la Giselle si lamentava energicamente ma senza alzarsi dal letto, con dei contundenti "I don't care if he's drunk", io e Nico continuavamo a dormir pur consapevoli dell'accadimento. Le ore sucessive si sono svolte fra i deliri poliglotti dello svedese, le sue pisciate sulla nostra porta, conati di vomito da posseduto satanico e qualche accenno di protesta sempre e solo della povera Giselle, che tra l'altro dormiva vicino alla porta. Alzatomi come sempre per primo, verso le 8, sono uscito e sono stato investito dall'odore di piscio rancido svedese. Il povero Cristo versava in condizioni da internato psichiatrico grave, seduto su una seggiolina con le gambe fra le mani. Aveva un occhio ancora funzionante, che mi guardava fisso ma vuoto di significato mentre l'altro aveva dichiarato l'indipendenza dal cervello piroettando qua e là nella suite (quella con la tenda...). Saltata la pozza di urina del simpatico negretto sono andato in bagno. Tornato dal cesso (nome più appropriato), il giovane ha iniziato a blaterarmi della roba incomprensibile fino all'imperdonabile tentativo di entrare in camera nostra. A quel punto mi sono incazzato di brutto, ho chiamato la tipa della reception, ho minacciato di non pagare, ho svegliato la bionda tatuata infamandola a dovere, ho fatto un pò il diavolo a 4 e mi sono levato dai coglioni ma non dopo che la versione afroscandinava di Nicolas Cage in Via da Las Vegas non aveva lasciato l'albergo. Che simpatica avventura.
Tutto ciò ci ha fatto velocemente divorziare da La Paz, ma non a ragione. Infatti, il pomeriggio al mercato, il pranzo con la tipa panameña che vive in città e che avevamo conosciuto nell'Isola degli Esattori e la visita a un'altra parte della città meno movimentata e più carina mi avevano fatto pentire di aver già comprato il biglietto per Cochabamba, ma ormai il dado era tratto (si dice dado, non dardo, dal latino "Alea iacta est"). Alle 22.30, puntuali come degli svizzeri, siamo arrivati al Terminal di Plaza Antofagasta, siamo saliti su un autobus stellare con dei seggiolini meravigliosamente grandi e molto più comodi della media peruana e ci siamo incamminati verso Cochabamba.

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