giovedì 25 giugno 2009

Eroi moderni

Filippo con Hope

Anche nella decadente Asunción si possono fare incontri direi quanto meno alternativi. Filippo Dattola da Bologna è decisamente uno di quegli incontri. Figlio di genitori calabresi emigrati al nord negli anni '80 ha avuto una vita simile a quella di molti altri. Scuola, lavoro, calcio, il militare negli Alpini. Con una passione irrefrenabile per il PC. Dopo 10 anni circa di fedele servizio come informatico si è rotto le palle e si è licenziato, ha preso la liquidazione ed è partito per il nordamerica. Ha cominciato quella che lui chiama la sua "Ri-evoluzione". In seguito ad alcune peregrinazioni si è ritrovato a bordo di Hope, una Corolla del 1990 rosso fuoco, e con Hope ha raggiunto il Paraguay superando di tutto. Con semplicità e col sorriso. Nelle sue peregrinazioni di vita ha scoperto una passione per la scrittura (ha un blog che sembra scritto da James Joyce sotto effetto della cocaina) e negli States si è comprato una macchina da scrivere degli anni '30. Con quella scrive, a volte seduto in un bar, a volte sul tetto di Hope, con discreto esito letterario e ragguardevole successo riproduttivo, che non guasta mai. Arrivato a Bogotà è stato intervistato dalla BBC locale, la Toyota Colombia ha visto l'intervista e l'ha chiamato per una sponsorizzazione a 3 zeri. Non male. Una giornalista de La Stampa ha visto l'intervista, l'ha contattato e presto uscirà un articolo sulla sua impresa. A Bogotà ha anche tradotto e stampato, con l'aiuto di amici e amiche conosciuti sul posto, il libretto che stava scrivendo in viaggio. Adesso lo vende a 5$ per finanziarsi il resto del viaggio e una copia l'abbiamo comprata anche noi. Insomma, let it flow o blow with the flow. Falla scorrere, segui il flusso. Se hai un idea, un sogno, una tentazione, non lasciarla rinchiusa dentro di te perché da dentro ti corroderà. Sputala. Come dice il grande psichedelico Battiato degli anni '80: "il giorno della fine non ti servirà l'inglese". E considerato che pochi di noi andranno in pensione e anche se ci andranno non avranno ormai più neanche il barlume di un erezione per godersi quel che resta della vita, ma che cazzo ci stiamo a fare seduti sotto ansiogeni neon ospedalieri a contemplare lo schermo di un PC sbirciando con la coda dell'occhio MSN e l'amica neozelandese con cui chattiamo segretamente e che mai nella vita avremo la possibilità e il coraggio di conoscere? La risposta è dentro di te, ma come diceva Quelo, è sbagliata!! Certo che lo è, perché' le risposte che la maggior parte delle persone si da per calmare le proprie ansie interiori sono del tipo "non me lo posso permettere", "non posso", "ho delle responsabilità". Ma nessuno nasce con responsabilità, le responsabilità si scelgono quando si sceglie di comprarsi gli ormai famosi occhiali di Dolce&Gabbana, quando si va a Sharm el Sheik, quando si compra l'Home Teathre. Che non "serve". Sempre che questo verbo significhi ancora qualcosa. Serve l'acqua al bambino africano, le medicine al bambino boliviano, l'educazione a quello indiano. A noi, ormai, non ci serve più un cazzo. Solo un po' più di dignità e rispetto per noi stessi.


Filippo sul web:
http://www.elcorolladefilippo.com/
http://unfilteredthink.blogspot.com/

domenica 14 giugno 2009

Sucre, Santa Cruz, Che Guevara e il Paraguay

EVO da quelle parti sta sul culo un pò a tutti, in quanto pericoloso comunista (lo testimonia la simpatica scritta sul muro che non potei fotografare e che recitava "Evo, Santa Cruz sarà la tua tomba"). Un tassita, povero e con un rottame di auto, appena sentito che andavamo a Vallegrande a visitare i luoghi dove finì i suoi giorni Chè Guevara, mi guarda e mi domanda in tono "io lo sapevo": comunisti??. Io mi guardo intorno per vedere se da qualche parte spunta Bruno Vespa o il Dottor Bondi ma niente. Siamo in Bolivia e non ad Arcore. Guardo il tassita e mi chiedo che cosa abbia da perdere un disgraziato come questo con il governo di Evo Morales. E mi rispondo: "niente, perchè questo non ha niente". Ma come sempre succede, i ricchi, gli americani, i padroni della colonia, sono sempre molto efficaci nel contagiare i propri sudditi americani del sud con le loro stesse paure. La povertà anche se non hai niente, la libertà anche se non la puoi godere. Mai una volta che li contagino con la loro ricchezza. Quella no, non si trasmette, è genetica...si eredita. Che Guevara, invece, anche se comunista combattente fedele sostenitore dell'inevitabilità della lotta armata, fa comodo al portafogli e quindi avanti popolo alla riscossa bandiera rossa trionferà, siamo tutti comunisti specie se in tasca hai una Visa, l'importante è pagare il conto all'oste. Rimpiango la Bolivia senza il senso degli affari e con un disinteresse snervante per i turisti. Forse è per questo che i cubani, quando arrivarono qui nel 1997 per riesumare i resti del Ché (ignobilmente gettati in una fossa comune nei pressi dell'aeroporto), decisero di portarselo via. Non gli piacquero gli occhietti avidi del sindaco. La domanda spontanea è: "ma la famiglia?". La risposta è: "boh". Mi fa troppa fatica di domenica mattina fare una ricerca per scoprire perché i resti sono a Cuba da Fidel e non in Argentina dalla famiglia. Certo è che l'Argentina non so se gli avrebbe costruito un mausoleo.
Quindi, dopo una visita lampo nella ridente Sucre, bella bianca e pulita che sembra d'essere in Europa (non in Italia...ho detto in Europa...) e non in Africa (cioè a Roma) come disse con grande acume comunicativo il nostro eccezionale Presidente del Consiglio, siamo andati a Santa Cruz, dove le famigliole vestite di cenci sniffano colla per la strada. Alloggiati in uno splendido alberghetto il cui proprietario ispira una naturale irrefrenabile antipatia abbiamo incontrato un gruppo di sciamannati anglofoni uno più ubriaco dell'altro, tutti mediamente imbecilli, specie uno, l'americano. 19 anni, idiota, in giro per il mondo con la Visa di papà, mi racconta con quei suoi occhietti vuoti da gringo rincoglionito di quando gli hanno puntato una pistola alla testa in una discoteca e spaccato un bicchiere in faccia. Ha ancora un cerotto su una guancia, accanto a un brufolo di acne adolescenziale. Mentre la mia faccia esprime sincero rammarico, penso: te lo meriti, testa di cazzo.
Ma che ci vogliamo fare, per loro è normale una sparatoria ogni tanto, una rissa, un occhio che rotola a terra sanguinante, una coltellata in pancia, una bottiglia in frantumi sull'ennesima testa vuota. Ma non li vedete i film???? Mah. Poi quando gli spieghiamo che in Europa quasi ovunque (anche se non ancora per molto) l'assistenza sanitaria è gratis, il niño stronzo inizia a dimenarsi incredulo. Come fanno ad essere così ignoranti? Il mondo di certa gente finisce in Texas.
Dopo aver passato una notte con i padroni del mondo in vacanza (c'era anche un ragazzino di Liverpool che avrei affogato con le mie mani) siamo andati a Samaipata, oasi in mezzo alle montagne circondata da ville miliardarie, Hummer, piccoli aerei biplano strabordanti cocaina e un numero considerevole di espatriati biondi che hanno aperto un alberghetto del cazzo o un ristorantino di merda (è che oggi c'ho l'acidità di stomaco, colpa del Rum&Cola).

La lavanderia


Da lì ci siamo spostati a Vallegrande, convinti di andare fino in fondo, fino a La Higuera a vedere il luogo dove seppellirono al Chè. Arrivati in paese siamo però stati assaliti dalla decadenza e dalla bruttura del luogo, abbiamo visitato la lavanderia dell'ospedale dove lo esposero mezzo nudo agli occhi del mondo e da dove tentarono invano di distruggere il mito, di umiliarlo, di svergognarlo, creando invece, col martirio, una delle figure cristologiche più rappresentate di tutti i tempi. Chè, uguale rivoluzione. Militare, uguale fascista. Come ci insegna il nostro Papi, quello che siede nei palazzi governativi italiani, i fasci, a volte ma non sempre, di comunicazione non ci capiscono un cazzo mentre sono grandi esperti di Viagra, Cialis, protesi sessuali a pompetta e veline minorenni pronte a tutto. Ma questo non basta a convincere milioni di operai nullatententi italiani a votare qualcun altro.
Una volta deciso che Vallegrande era sufficiente siamo tornati a Santa Cruz e con tempismo perfetto siamo saltati sul primo autobus in partenza per il Paraguay, destinazione Filadelfia. La teoria del "tanto son tutti uguali" ci ha condotto in un autobus super scalcinato ma affidabile, che in meno di una notte e poco più ci ha scaricato nel nulla. Filadelfia se non la vedi non ci credi. Colonia mennonita insediatasi in Paraguay nel 1927, è uno dei centri produttivi più importanti del Paraguay. I mennoniti, fuggiti perchè discriminati da URSS, Canada, Germania ecc. hanno conservato i loro costumi in modo estremista, rifiutando il contatto con la gente indigena e continuando a parlare la loro lingua. Biondi, alti, alcuni giganteschi. Altri, purtroppo, affetti da un impoverimento genetico dovuto alla cattiva abitudine di autorizzare solo matrimoni interni alla comunità. Le donne, come in tutte le società arcaiche e conservatrici, sono costrette a portare il peso della tradizione, e quindi le si vedono vestite in stile contadino degli anni '30. Gli uomini, invece, vestono dei più sobri abiti occidentali. Tutti sembrano usciti da una versione bigotta della Casa della Prateria (non so se hanno fatto una versione porno, ma ne sono quasi sicuro). Come molte sette o minoranze che hanno sofferto segregazione, umiliazioni, razzismo, loro stessi pensano bene di riservare lo stesso trattamento agli indigeni guaranì e non che vivono, anche se non tutti, in uno stato di povertà assoluta.
Dopo una "eccitante" notte a Filadelfia, dove abbiamo conosciuto la couchsurfer olandese Sofia che lavora in una ONG che si occupa di indigeni e vive in quel deserto da ben 8 mesi (è allo stremo) ci siamo incamminati verso Asunciòn. Bisogna preliminarmente dire che il cambio fra Bolivia e Paraguay è dei più estremi. In Paraguay comincia il sudamerica europeo che trova il suo culmine in Argentina e Cile. Mentre la Bolivia è un paese ancora caratterizzato e abitato in maggioranza da nativi, il Paraguay è un paese di bianchi. E la decadenza, la povertà, di un europeo in sudamerica, non trova il conforto della tradizione. Un'anziana boliviana o peruana, per quanto misera, tiene una bellezza negli occhi, nel modo di vestire, nella tradizione che sopravvive. Ad Asunciòn sembra di essere in un paese dell'est ex-comunista. Mi immagino che somigli ad alcune parti dell'Italia una 40ina di anni fa. Certo la maggioranza della popolazione (bianca) parla Guaranì. Ma è una lingua rubata. E non impedisce ai bianchi che parlano Guaranì di detestare o avere comportamenti razzisti con i nativi a cui hanno rubato la terra e anche la lingua.
Asunciòn non mi ha fatto proprio impazzire e infatti l'addio alla città e al Paraguay è vicino. Lo sostituiremo col sempre affascinante Brasile. Forse oggi, forse domani.

Quel che resta

mercoledì 10 giugno 2009

Vale un Potosì

Dentro la Miniera
All'epoca della conquista si diceva "vale un Perù". Don Quijote si esprimeva diversamente: "vale un Potosì". Entrambe erano misure impossibili da quantificare come impossibili da quantificare sono i milioni di tonnellate di minerale prezioso che dalle profondità delle terre sudamericane hanno attraversato l'oceano per andare a ingrassare le casse di quelle che poi sarebbero diventate le attuali super potenze mondiali. Potosì, all'epoca della conquista era la città più ricca e prospera del pianeta, qui affluivano dai 4 angoli del pianeta gli oggetti più lussuosi, le dame più belle, i commercianti più spietati. Adesso mantiene solo l'ombra di quello splendore, sostituita da una decadenza cui fa da contrappeso la vitalità della gente e il numero incredibili di giovani che la abitano.

Turisti

Ai tempi dell'auge dell'argento si potevano lastricare le strade con lamine di metallo prezioso per abbellire la città durante le feste patronali. Le chiese, i palazzi signorili e tutto quanto appartenesse alle classi abbienti della città erano tappezzate di oro e di argento. Il lusso a Potosì si esprimeva nella sua versione più sfacciata ed impossibile. La quantità di ricchezza che rigurgitava il serro era semplicemente immensa, come immensa era la quantità di manodopera che gli spagnoli reclutavano fra gli indigeni disperati, affamati, illusi. In condizione di pseudo schiavitù erano costretti a turni massacranti in condizioni massacranti. La vita media di un minatore che entrava nei tunnel a 14 anni difficilmente raggiungeva i 35. I polmoni venivano lentamente erosi dalle polveri che provocavano la silicosi. L'organismo indebolito dall'assenza di sonno e alimentazione. Quando ne moriva uno ne entrava semplicemente un altro. Nonostante la chiesa avesse ipocritamente dichiarato che gli indigeni, anche loro, possedessero un'anima, la realtà è che erano usati, anche con il tacito consenso della chiesa, come braccia al servizio dei dominatori, considerati alla stregua di bestie da soma e come esseri viventi senza coscienza e senza diritti.

Entrare nella miniera nel 2009 non può che riprodurre parzialmente quello che poteva rappresentare scendere nelle sue profondità nel 17º secolo. Nonostante il livello di sfruttamento non sia quello di una volta (adesso la maggior parte dei minatori sono organizzati in cooperative) e nonostante non ci sia quel brulichio incessante di operai che doveva esserci secoli fa, l'impatto con la miniera è sconcertante. Ma la visita turistica di 2 ore nei tunnel non può che dare un'idea approssimativa di cosa significhi vivere e lavorare anni in quell'inferno. La polvere, il caldo, il freddo, l'umidità, i rischi innumerevoli legati alle esplosioni e ai crolli, la debilitazione fisica e l'esaurimento mentale che quel lavoro produce con il miraggio irraggiungibile della ricchezza e della prosperità, e quel panorama arido che circonda la città e il serro stesso, e che finisce per inaridire anche la gente consapevole che il saccheggio è ormai finito e che se le multinazionali si sono ritirate è perché ormai non c'è più margine di guadagno accettabile. Questo, adesso, è la miniera di Potosì. Un disastro la cui descrizione attuale sarebbe di molto simile a una cronaca seicentesca, solo senza dame, teatri, arazzi e cavalieri ad abbellire il panorama.



Intervista a Don Luis

sabato 6 giugno 2009

Cronaca di un disastro

Una volta era verde. Adesso è un groviera.


“'Dobbiamo crear loro dei bisogni', ho sentito dire
a un uomo che conosce bene il nostro paese. I
bisogni sarebbero le cose. 'Allora diventeranno più
laboriosi' continuò l'uomo astuto. E voleva dire che
anche noi dovremmo utilizzare le forze delle nostre
mani per produrre cose, cose per noi, ma soprattutto
però per il Papalagi. Anche noi dobbiamo diventare
stanchi, grigi e curvi.”

Tuiavii di Tiavea (1998, 33)

Il gioco è relativamente semplice: l'uomo bianco, il Papalagi, arriva dove il suo mondo non ha ancora messo piede. Introduce la "moneta" e il "lavoro". Dice all'indigeno che per ottenere l'una si deve rassegnare all'altro. Poi riempe i negozi di aguardiente, mettendogli un prezzo arbitrario. La sera, al ritorno dalla miniera, fabbrica o piantagione, fa in modo che l'indigeno, il cui organismo non è assolutamente abitutato all'alcol, si distrugga il corpo e la mente con quel veleno. La mattina gli riempe la bocca di foglie di coca e lo rimanda nella miniera, nella fabbrica o nella piantagione. Questo fino a che il suo fisico, debilitato dal troppo lavoro e dalla scarsa alimentazione, non si decomponga in vita.
La miniera di Potosì, il Cerro Rico, è un monumento a questo schema implacabile di sfruttamento che la società dell'uomo occidentale impone da centinaia di anni a chi è arrivato troppo tardi al saccheggio o a quei popoli la cui filosofia di vita non si compone dei verbi "scoprire, sfruttare, abbandonare" come fa invece la nostra società. L'essere italiani ci da un posto un pò defilato in questa platea di aguzzini ma non per questo ci solleva dalle responsabilità. Ogni volta che compriamo un Cartier, una Ford, il caffè Lavazza, qualunque marca di zucchero, siamo complici della mattanza. Ogni volta che non spengiamo la luce, lasciamo l'auto accesa o il frigo aperto ci sporchiamo la coscienza col sangue di chi non c'entra assolutamente nulla. Ogni acquisto stupido e inutile contribuisce a mandare avanti la macchina dell'insensatezza che è ormai la nostra triste e vuota società perfettamente rappresentata dai Renzi, dai Berlusconi, dai Tronchetti Provera, dai Briatore, dai Ricucci e dalle Noemi. Basta sostituire all'aguardiente tutti i prodotti idioti, inutili e spesso brutti che la pubblicità ci convince essere indispensabili per la nostra riuscita sociale o sopravvivenza psico-fisica (il ricorrente e ossesionante esempio degli occhiali di Dolce&Gabbana - 2 italiani di successo - prodotti da bambini cinesi che guadagnano 1 dollaro al giorno e venduti a 300 € ai giovani d'oggi da Salmoiraghi&Viganò è, come sempre, eccezionalmente calzante). Alla coca, invece, sostituiamo l'icona del successo e realizzazione sociale proposta dal tubo catodico (oggi schermo al plasma) e che spinge, oltre a eserciti di stipendiati ad alzarsi ogni mattina e a votare Berlusconi, anche orde di ragazzine appena 18enni - tristi, vuote, intimamente disperate - ad avere rapporti orali (gli unici possibili a una certa età) con cenciosi e avvizziti membri maschili, purchè essi siano appesi, anche se in modo precario e provvisorio, a corpi di bavosi miliardari di successo. Se no, c'è sempre il Viagra.

Lettura consigliata: Tuiavii di Tiavea (1998). Papalagi, discorso del capo Tuiavii di Tiavea delle isole Samoa. Viterbo: Stampa Alternativa.

Dal Sudamerica, è tutto.

mercoledì 3 giugno 2009

Vivi, nonostante tutto.

Colazione sull'Orient Express

Dopo una notte a Oruro nel peggiore degli hotel con materasso concavo e gelo polare abbiamo preso il pittoresco treno boliviano, in direzione sud, verso Uyuni. Partenza alle 15.30 e arrivo alle 22.30 in perfetto orario. Sbarcati alla stazione di Uyuni una simpatica mamacha vestita di giallo ci ha convinti in 3 secondi della bontà della sua offerta. La nostra filosofia del "tanto son tutti uguali" mista a una buona dose di pigrizia ci ha fatto accettare al volo il pacchetto 3 giorni 2 notti tutto incluso al meraviglioso prezzo di 55 euri nel Salar di Uyuni+Deserto+Gaiser+visita lampo a un numero imprecisato di lagune colorate e non con autista scoreggione incluso: il mitico Ever, 23 anni, ormai soprannominato Gaiser.
Il tour massacrante è partito da Uyuni il sabato mattina. Il bancomat era fuori uso, quindi la mamacha in giallo si è dovuta accontentare di un acconto perchè Nicola il previdente non aveva soldi. La jeep Toyota Land Cruiser con 4 gomme del '73 lasciava un pò a desiderare ma l'equipaggio era dei migliori, con 2 francesi da cartone animato, Pascal&Sebastian, impegnati da 9 mesi nel giro del mondo e una coppia di danesi 20enni, Louise e Mads. Il tour consisteva nel passare una quantità di ore imprecisate nella jeep, con Ever che aveva colpi di sonno mentre guidava nel Salar. Quando scendevamo, Gaiser ci ordinava di fare foto, ci dava 10 minuti di tempo e si allontanava un pò, presumibilmente per scoreggiare. La prima notte abbiamo dormito in un simpatico hotel di sale, la seconda in una sperduta pensione con temperatura sottozero a più di 4000 metri. Il menù della seconda notte, che includeva tra l'altro un piatto di spaghetti accettabili, ha prodotto delle reazioni chimiche intestinali uniche nel nostro autista rendendo il secondo giorno ancor più asfissiante.
Tornati a Uyuni con una paresi articolare abbiamo dovuto affrontare lo "sciopero generale indefinito" che ci era stato annunicato già dal sabato. Mentre ci avvicinavamo al paese ascoltavamo alla radio le minacce del comitato degli scioperanti che prometteva espellere dalla città le imprese di trasporto che non avessero rispettato l'ordine di incrociare le braccia. Nonostante fossimo d'accordo con tutte le rivendicazioni che avevano prodotto la sollevazione popolare il giramento di coglioni era sommo. Arrivati, abbiamo iniziato ad indagare le possibilità di lasciare Uyuni. La città era piena di stranieri confusi e un pò incazzati, soprattutto quelli che erano arrivati a Uyuni per andare a vedere il Salar e che si ritrovavano nell'impossibilità di fare il tour ma anche di lasciare la città. Benvenuti in Bolivia. L'insistenza di Nicola (io mi ero abbandonato al destino) ci ha permesso di contrattare una jeep al prezzo di 160 euri da dividere in 6. Tutto si è svolto in un clima surreale, cercando di fare tutto di nascosto in modo che nessuno delle spie degli scioperanti capisse che stavamo partendo per Potosì cercando di evitare i blocchi dei manifestanti inferociti. Siamo dovuti salire sulla jeep uno alla volta, una volta saliti a bordo della jeep, ognuno con i suoi zaini sulle ginocchia per non dare nell'occhio (se li mettevamo sopra eravamo troppo riconoscibili), l'autista si è addentrato a fari spenti nella steppa boliviana. Io mi ero già visto morto di sette disperso nell'altipiano. Ogni tanto l'autista, che era assistito dalla moglie e dal cognato, scendeva e scrutava l'orizzonte per orientarsi. Io mi stavo cagando addosso e mi era passato il sonno la sete e la fame, mentre un panico strisciante si impadroniva dei miei pensieri. Dopo 3 ore vagando in mezzo a fossi e cespugli, schivando lama e vigogna, mentre l'autista con il suo ottimismo incrollabile disegnava traettorie discutibili nel deserto in cerca della giusta direzione, abbiamo raggiunto la strada per Potosì. Alle 4 di mattina stavamo nella città dei minatori in cerca di un hotel che ci permettesse di recuperare dallo shock della notte avventurosa e dei 3 giorni respirando le flatulenze di Ever.

Mitico Ever

Lavoratori del Salar

El Arbol de Piedra

La fuga