mercoledì 10 giugno 2009

Vale un Potosì

Dentro la Miniera
All'epoca della conquista si diceva "vale un Perù". Don Quijote si esprimeva diversamente: "vale un Potosì". Entrambe erano misure impossibili da quantificare come impossibili da quantificare sono i milioni di tonnellate di minerale prezioso che dalle profondità delle terre sudamericane hanno attraversato l'oceano per andare a ingrassare le casse di quelle che poi sarebbero diventate le attuali super potenze mondiali. Potosì, all'epoca della conquista era la città più ricca e prospera del pianeta, qui affluivano dai 4 angoli del pianeta gli oggetti più lussuosi, le dame più belle, i commercianti più spietati. Adesso mantiene solo l'ombra di quello splendore, sostituita da una decadenza cui fa da contrappeso la vitalità della gente e il numero incredibili di giovani che la abitano.

Turisti

Ai tempi dell'auge dell'argento si potevano lastricare le strade con lamine di metallo prezioso per abbellire la città durante le feste patronali. Le chiese, i palazzi signorili e tutto quanto appartenesse alle classi abbienti della città erano tappezzate di oro e di argento. Il lusso a Potosì si esprimeva nella sua versione più sfacciata ed impossibile. La quantità di ricchezza che rigurgitava il serro era semplicemente immensa, come immensa era la quantità di manodopera che gli spagnoli reclutavano fra gli indigeni disperati, affamati, illusi. In condizione di pseudo schiavitù erano costretti a turni massacranti in condizioni massacranti. La vita media di un minatore che entrava nei tunnel a 14 anni difficilmente raggiungeva i 35. I polmoni venivano lentamente erosi dalle polveri che provocavano la silicosi. L'organismo indebolito dall'assenza di sonno e alimentazione. Quando ne moriva uno ne entrava semplicemente un altro. Nonostante la chiesa avesse ipocritamente dichiarato che gli indigeni, anche loro, possedessero un'anima, la realtà è che erano usati, anche con il tacito consenso della chiesa, come braccia al servizio dei dominatori, considerati alla stregua di bestie da soma e come esseri viventi senza coscienza e senza diritti.

Entrare nella miniera nel 2009 non può che riprodurre parzialmente quello che poteva rappresentare scendere nelle sue profondità nel 17º secolo. Nonostante il livello di sfruttamento non sia quello di una volta (adesso la maggior parte dei minatori sono organizzati in cooperative) e nonostante non ci sia quel brulichio incessante di operai che doveva esserci secoli fa, l'impatto con la miniera è sconcertante. Ma la visita turistica di 2 ore nei tunnel non può che dare un'idea approssimativa di cosa significhi vivere e lavorare anni in quell'inferno. La polvere, il caldo, il freddo, l'umidità, i rischi innumerevoli legati alle esplosioni e ai crolli, la debilitazione fisica e l'esaurimento mentale che quel lavoro produce con il miraggio irraggiungibile della ricchezza e della prosperità, e quel panorama arido che circonda la città e il serro stesso, e che finisce per inaridire anche la gente consapevole che il saccheggio è ormai finito e che se le multinazionali si sono ritirate è perché ormai non c'è più margine di guadagno accettabile. Questo, adesso, è la miniera di Potosì. Un disastro la cui descrizione attuale sarebbe di molto simile a una cronaca seicentesca, solo senza dame, teatri, arazzi e cavalieri ad abbellire il panorama.



Intervista a Don Luis

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